A Saint-Denis, nella periferia di Parigi, il 3 e il 4 di questo mese si è tenuta la Festa del Libro Amazigh, una vivace celebrazione di un’identità che trascende i confini geografici per far rivivere la memoria culturale dei marocchini della diaspora. In questa periferia parigina, il festival si è affermato come un evento culturale di grande portata, riunendo scrittori e studiosi marocchini di Agadir, Rabat e Kenitra – tra cui il preside della Facoltà di Lettere e Scienze Umane di Agadir, il professor Jaïd Abdelkhalek – per rendere omaggio alla letteratura amazigh, fondamento essenziale dell’identità plurale marocchina.
La figura di Mohammed Khair-Eddine, scrittore marocchino in esilio, era onnipresente lì, non in carne e ossa, ma attraverso i suoi testi, incandescenti di rivolta, dolore e aspirazione alla libertà. Esiliato, fece dell’esilio una matrice creativa, patendo un nuovo lessico.
Nato a Bouznika nel 1941, Khair-Eddine lasciò presto il Marocco per la Francia, in fuga dai molteplici volti del potere. Giovanissimo abbandonò la scuola, ma abbracciò uno stile di scrittura incandescente, quasi vulcanico, come dimostra questa frase suggestiva: “Non scrivo, sparo proiettili veri su fogli di carta”. »
Per lui l’esilio diventa il luogo per eccellenza dell’espressione di uno sradicamento culturale, politico ed esistenziale. Sebbene scrivesse nella lingua di altri, non tradì mai la sua anima amazigh: la sua opera mescola mito, storia, finzione e realtà, trasformando i suoi scritti in archivi della memoria diasporica. Ribellandosi a ogni forma di autorità, fece della scrittura un atto di resistenza contro l’amnesia e l’alienazione.
Nel corso delle conferenze del festival, a cui hanno partecipato l’accademico Abdellah Baïda dell’Università Mohammed V di Rabat, uno dei massimi specialisti di Khair-Eddine, nonché lo scrittore e preside della Facoltà di Lingue e Arti di Aït Melloul, Abdelkhalek Jaïd, e altri accademici, Khair-Eddine è stata evocata come figura tutelare della letteratura dell’esilio, testimone e martire al tempo stesso, incarnazione magistrale di quella che potremmo definire “letteratura della circolarità”: quella che trasmuta l’esperienza intima dell’esilio in memoria collettiva, in archivio di resistenza interiore.
Questa letteratura della memoria e dell’insubordinazione non eleva l’esilio a rottura, ma a una continuità vissuta in modo diverso, che ridefinisce l’appartenenza attraverso il prisma del dolore e dell’interrogativo. Per Khair-Eddine, l’atto dello scrivere era un impegno, un modo di tracciare la distanza tra radice ed esilio, tra un’identità minacciata e un linguaggio da reinventare per accogliere l’angoscia dell’essere.
Le sue poesie furono lette, i suoi romanzi – torrenti di lava – analizzati e la sua opera acclamata come l’archetipo di una letteratura diasporica che non solo parla della patria dall’esilio, ma ricompone anche la patria attraverso l’esilio. Fu con questa lucida furia che scrisse, sfidando l’integrazione forzata, rifiutando l’addomesticamento delle menti.
Nel suo romanzo Agadir, lancia questo grido straziante: «La città brucia. E dentro, urlo in una lingua che nessuno capisce più.»
Khair-Eddine dipinge un esilio complesso: culturale, linguistico, esistenziale. La sua scrittura non cercava di spiegare, ma di denunciare l’assurdo. Si chiedeva instancabilmente: «L’esilio è forse un’altra forma di patria o una buca in cui si piantano radici che non germoglieranno mai?»
Rifugiatosi nella lingua francese, non ne adottò né i codici né le servitù. Al contrario, lo sabotò, lo scosse, infondendovi un’anima ribelle amazigh. Ha forgiato una bussola estetica unica, vista da lontano. La sua opera è un amalgama bruciante di poesia, romanzo, mito e frammentata autobiografia, come uno specchio rotto in cui scrutava il mondo e se stesso.
L’Amazigh Book Festival è stato molto più di un evento culturale: ha offerto una piattaforma per riscoprire Khair-Eddine come icona dello sradicamento marocchino, una chiave per comprendere i tormenti dell’intellettuale in esilio, quando la scrittura diventa un grido e un ponte tra memoria e dissoluzione.
Nonostante abbia lasciato questo mondo nel 1995, Khair-Eddine continua a vibrare nel corpo della letteratura marocchina, come un incessante richiamo ai margini, un grido contro l’oblio, un inchiostro che il tempo non può asciugare. E questo festival non si limita a rendergli omaggio: ne ravviva la presenza incandescente, affinché la sua opera resti un baluardo di fuoco contro l’amnesia.
Zakia Laaroussi