Contro l’allarmismo, per la preparazione: cosa dice davvero il Regno Unito sulla “mobilitazione nazionale”

Diwp

Dic 17, 2025 #politica, #Russia

Se si vuole fare analisi seria, la prima regola è semplice: evitare di inseguire i lanci d’agenzia e tornare sempre alla fonte primaria. In particolare quando si tratta di temi militari, di sicurezza e di difesa, dove il sensazionalismo mediatico rischia di deformare il significato reale delle parole. Nei contesti ufficiali, legali o diplomatici vale una regola chiara: fa fede il testo effettivamente pronunciato. È lì che si trovano le intenzioni, le priorità e la direzione politica reale, non nelle sintesi emotive della stampa.

Il discorso del Capo di Stato Maggiore della Difesa britannico, il maresciallo capo dell’aeronautica Sir Richard Knighton, pronunciato il 15 dicembre 2025 al Royal United Services Institute, ne è un esempio emblematico. Di fronte ai toni apocalittici assunti da parte della stampa italiana, la lettura del testo integrale – dichiaratamente trascritto “esattamente come è stato pronunciato” – restituisce un quadro molto diverso: pragmatico, coerente, per nulla isterico, ma estremamente lucido.

Il punto centrale dell’intervento è l’adozione di un “approccio che coinvolga l’intera società” alla deterrenza e alla difesa. Non una chiamata alle armi generalizzata, né una profezia di guerra imminente, ma un ragionamento strutturale sulla resilienza nazionale. Per Knighton, la deterrenza non riguarda solo la capacità militare in senso stretto, ma la capacità di una nazione di rendersi un bersaglio difficile, mobilitando tutto il proprio potere: università, industria, infrastrutture energetiche, sistema sanitario, finanza, istruzione.

È una visione “total-in”, come la definisce lo stesso capo militare britannico: la difesa e la resilienza devono diventare una priorità nazionale condivisa. Questo implica che anche chi non indossa un’uniforme investa competenze, risorse e capitale nell’innovazione e nella soluzione dei problemi. Informare l’opinione pubblica è solo il primo passo; ciò che conta davvero è ricostruire capacità e infrastrutture che sostengano lo Stato in situazioni di crisi, dalla guerra alle calamità naturali.

Il Regno Unito, con la consueta pragmaticità anglosassone, non finge ambiguità e non indulge nell’arte tutta italiana del dire una cosa per poi farne un’altra. Dice apertamente che servono più riserve, più cadetti, più capitali nell’industria della difesa, più competenze STEM, più integrazione tra ricerca civile e bisogni militari. Le riserve, in particolare, vengono viste come un ponte tra società e forze armate: portatrici di competenze tecnologiche, ma anche ambasciatrici della cultura della difesa in ambienti che altrimenti ne resterebbero estranei.

Il passaggio più interessante, però, è quello che riguarda le famiglie, i nuclei sociali, la vita quotidiana. Knighton si chiede esplicitamente cosa significhi, in pratica, una risposta dell’intera società. La risposta è chiara: più persone pronte a combattere se necessario, ma anche – e soprattutto – più persone pronte a sostenere lo Stato, a garantirne il funzionamento, a reggere l’urto di una crisi prolungata. Figli e figlie, colleghi, veterani, anziani: tutti hanno un ruolo da svolgere, per costruire, per servire e, se necessario, per combattere.

È qui che il discorso britannico offre spunti di riflessione cruciali per l’Italia. Parlare di “mobilitazione nazionale” non significa immaginare milioni di cittadini mandati al fronte. Significa preparazione. Significa sapere cosa fare prima che accada l’emergenza. Nei Paesi dell’Europa orientale – tanto spesso liquidati con sufficienza per il loro passato comunista – la mobilitazione nazionale era una realtà: intere generazioni educate alla gestione della crisi, alla continuità amministrativa, alla difesa civile. In Occidente questo non è mai avvenuto, e i risultati si vedono ogni volta che una calamità naturale mette a nudo l’improvvisazione e il caos.

Reintrodurre una leva militare di massa, oggi, non avrebbe senso: sarebbe costosa, inefficiente e tecnicamente inadeguata. Ma questo non significa rinunciare a un “esercito di popolo” nel senso moderno del termine. Serve piuttosto una leva civica: personale pubblico formato per garantire la continuità amministrativa in caso di guerra o disastro, unità trasversali negli ospedali, nella pubblica amministrazione, nei servizi essenziali. Serve coinvolgere anche le fasce più anziane della popolazione, che possono assistere i loro coetanei più fragili, liberando risorse più giovani per altri compiti.

L’obiezione classica è che in Italia esiste il volontariato. Ma il volontariato, se non integrato in una struttura statale chiara, in caso di mobilitazione rischia di diventare un problema più che una soluzione. La storia lo dimostra: l’Italia non seppe gestire i profughi nella Prima guerra mondiale, non imparò nulla e ripeté gli stessi errori nella Seconda, lasciando tutto all’improvvisazione. Continuare su questa strada sarebbe irresponsabile.

La guerra in Ucraina insegna che i conflitti futuri in Europa saranno lunghi, di posizione, ad alta intensità tecnologica. Serviranno combattenti preparati, ma anche tecnici, amministratori, ingegneri, operatori sanitari, funzionari capaci di far funzionare lo Stato anche quando i collegamenti tra centro e periferia vengono meno. Questo è il senso profondo della “mobilitazione nazionale” evocata dal Regno Unito: non panico, ma preparazione. Non propaganda, ma realismo. E forse è proprio questo che più di tutto manca oggi al dibattito italiano.

Marco Baratto

Di wp