LA SPERANZA SULLA TOMBA DEI 50 ANNI DI INDIPENDENZA DELL’ANGOLA

Diwp

Nov 5, 2025 #Angola, #politica

L’indipendenza dell’Angola, proclamata e istituita a Luanda l’11 novembre 1975, dopo secoli di dominio coloniale, nacque avvolta nella speranza e nell’eroismo. Prometteva liberazione, uguaglianza e dignità. Il popolo credeva che la bandiera fosse l’inizio di una nuova era. Ma l’indipendenza si trasformò rapidamente in frattura, in disputa e in delusione.

Quando la guerra civile terminò il 22 febbraio 2002, con la fine delle ostilità tra MPLA e UNITA, l’Angola rinacque sotto un potere centralizzato, autoritario e impermeabile alla critica. La pace si formalizzò più tardi, con la firma del Memorando di Lwena il 4 aprile 2002, ma anche la formalizzazione non portò libertà; portò silenzio, paura e obbedienza. Lo Stato si confondeva con il partito, il partito con il potere e il potere con la volontà di un solo uomo. L’opposizione vegeta, moribonda, addomesticata dal comfort e dalla paura. La società, allergica alla critica, vive sottomessa alla cultura della paura, dove l’obbedienza viene confusa con il patriottismo.

Il petrolio e i diamanti, ricchezze che avrebbero potuto sostenere lo sviluppo, divennero simboli di corruzione e privilegio. Le province produttrici, Cabinda, Zaire e le Lunda, sono ritratti dell’assurdo: abbondanza nel sottosuolo e miseria in superficie. Lo Zaire è lo specchio più crudele di questa contraddizione, non ha nulla di speciale se non l’abbandono. Le sue strade sono piene di buche, le scuole sono macerie e gli ospedali, tombe di speranza.

Mbanza-Kongo, proclamata Patrimonio Culturale dell’Umanità dall’UNESCO, oggi è una rovina morale, un nome venerato nei discorsi e dimenticato nella vita reale. È un corpo di pietra, un simbolo vuoto, una vergogna mascherata da orgoglio nazionale. L’Angola celebra titoli mentre lascia morire l’anima del proprio popolo.

Il paese arriva al traguardo dei cinquanta anni con cerimonie e discorsi, ma la vita reale continua a schiacciare il popolo. Perfino eventi simbolici, come l’amichevole con la nazionale argentina, diventano palcoscenici di ipocrisia: mentre si gioca a calcio e si applaude la memoria dell’indipendenza, fame, miseria e precarietà rimangono nella tomba silenziosa della speranza. Il popolo osserva, non partecipa, e la festa dell’élite non tocca la vita di chi soffre di più.

Cinquanta anni dopo, lo Stato si presenta come sovrano, ma vive prigioniero della propaganda. La democrazia è rituale, il voto è prevedibile e l’alternanza è un miraggio. L’indipendenza si è trasformata in proprietà privata e il paese continua ostaggio di un’élite che accumula ricchezza con la stessa freddezza con cui distribuisce povertà.

La gioventù, che non ha vissuto la guerra, porta delusione. Non conosce la speranza, conosce solo l’improvvisazione. È una generazione orfana di riferimenti, abbandonata in un paese che non la ascolta. L’indipendenza non libera; scambia solo il colonizzatore straniero con un colonizzatore interno, più vicino, più cinico e più spietato.

LA CEAST E L’INCONTRO NAZIONALE DELLA RICONCILIAZIONE

In questo ambiente di decadenza morale e silenzio sociale, la CEAST, Conferenza Episcopale di Angola e São Tomé, alza una voce che il potere teme, la voce della coscienza. L’Incontro Nazionale della Riconciliazione che propone non è solo un evento politico, è un atto morale, una sfida aperta all’élite e alla società. La CEAST sa che non c’è riconciliazione senza verità né pace senza giustizia.

Il capo dello Stato non si rifiuta per diplomazia, si rifiuta per durezza di cuore, per incapacità di sentire, per disprezzo del dolore collettivo. Non è neutralità, è indifferenza. Non è prudenza, è arroganza. È la pietrificazione morale di chi crede che governare significhi zittire e che pace sia assenza di rumore. Questa freddezza è la violenza più profonda, la violenza di chi vede e non fa nulla.

La CEAST, però, non si piega. Afferma che la riconciliazione non si decreta, richiede pentimento, ascolto e cambiamento reale. Convoca tutti i settori marginalizzati, la gioventù, le chiese e le voci silenziate, per recuperare ciò che resta dell’anima nazionale. Perché l’Angola non ha bisogno di nuove promesse, ha bisogno di conversione morale, coraggio e giustizia sociale.

L’incontro che la Chiesa propone è, quindi, un atto di accusa morale contro lo Stato e contro l’élite che lo sostiene. È un grido che riecheggia nella coscienza di un paese addormentato. Senza verità non c’è riconciliazione. Senza riconciliazione non c’è futuro.

Mentre il potere mette in scena la pace e moltiplica le cerimonie, il popolo continua a portare croci invisibili, fame, disoccupazione e disperazione. La vera riconciliazione sarà possibile solo quando lo Stato smetterà di temere il proprio popolo e riconoscerà la profondità dei propri errori.

L’Angola ha bisogno più che di discorsi, ha bisogno di anima. Ha bisogno di coraggio per rompere il silenzio e restituire umanità alla politica. Fino ad allora, continuerà a vivere sulla tomba della speranza, in un paese dove il tempo passa, ma la libertà non arriva ancora.

Padre Pedro Sampaio

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