Le parole del vicepresidente statunitense JD Vance, che ha definito la mancata mediazione di un accordo tra Russia e Ucraina la sua maggiore frustrazione dall’insediamento alla Casa Bianca, offrono l’ennesimo spunto di riflessione su una verità storica che molti europei preferiscono ignorare: quando si tratta di risolvere i grandi conflitti sul continente, è quasi sempre necessario l’intervento degli Stati Uniti. È un fatto, più che un’opinione. Dal 1776 in poi, la nascita degli Stati Uniti ha progressivamente modificato gli equilibri mondiali, e dal XX secolo in avanti Washington è diventata l’arbitro indispensabile di ogni questione europea di grande portata.
L’Europa, nonostante la sua ricchezza culturale, il suo peso economico e il suo orgoglio storico, continua a mostrare un’incapacità strutturale nel gestire crisi geopolitiche complesse. L’esempio attuale della guerra in Ucraina non fa eccezione. La diplomazia europea, divisa da interessi nazionali spesso inconciliabili, ha mostrato limiti evidenti e una lentezza decisionale che contrasta con l’urgenza del conflitto. Le istituzioni dell’Unione Europea, pur restando fondamentali per la stabilità economica e normativa del continente, si mostrano ancora incapaci di agire come un vero soggetto strategico.
Vance, nel definire la crisi Russia-Ucraina come “la guerra che pensavamo fosse la più facile da risolvere”, rivela un certo stupore da parte dell’amministrazione americana. Questo stupore è comprensibile solo se visto dalla prospettiva statunitense: un Paese abituato a prendere decisioni rapide, con una leadership centralizzata e un esercito concepito per proiettare potenza all’estero. Gli USA guardano all’Europa e vedono un continente ancora vincolato alle sue dinamiche interne, ai suoi compromessi infiniti, ai suoi ritardi burocratici. Eppure è proprio l’Europa, più di chiunque altro, ad avere interesse a risolvere le crisi che si sviluppano nel suo vicinato.
La storia recente conferma questo pattern. Senza l’intervento degli Stati Uniti nel 1917, l’esito della Prima guerra mondiale sarebbe stato completamente diverso. Le potenze europee, dopo anni di trincee e massacri inutili, erano incapaci di trovare una soluzione autonoma. La vittoria finale fu resa possibile proprio dal massiccio apporto americano, sia economico sia militare. E lo stesso vale per la Seconda guerra mondiale: senza lo sbarco in Sicilia nel 1943 e senza l’impegno colossale del D-Day nel 1944, la liberazione dell’Europa dal nazifascismo sarebbe stata impensabile. Ancora una volta, furono gli Stati Uniti a chiudere una guerra che gli europei, da soli, non riuscivano né a vincere né a contenere.
Dopo il 1945, gli USA non solo contribuirono alla ricostruzione materiale del continente attraverso il Piano Marshall, ma garantirono, tramite la NATO, la cornice di sicurezza che ha permesso all’Europa di godere di decenni di stabilità e prosperità economica. L’ironia è che molti europei parlano oggi di “autonomia strategica” come di un obiettivo imminente o realistico, quando in realtà la capacità militare europea rimane frammentata, sottodimensionata e politicamente dipendente dalla volontà americana.
Un altro esempio storico significativo è il Medio Oriente. Le potenze europee – in particolare Regno Unito e Francia – ridisegnarono la regione dopo la Prima guerra mondiale con confini artificiali che hanno contribuito a generare una lunga sequenza di conflitti, tensioni e rivalità etniche e religiose. Anche in quel caso, il tentativo europeo di modellare il mondo secondo i propri interessi ha prodotto problemi che, spesso, gli Stati Uniti hanno dovuto gestire nei decenni successivi, pagando un prezzo politico ed economico non irrilevante.
Arrivando all’attualità, l’incapacità dell’Europa di elaborare una strategia chiara nei confronti della Russia dopo il 2014, quando la Crimea venne annessa illegalmente, è un altro segnale di debolezza strutturale. I singoli Paesi europei hanno seguito linee divergenti: chi cercava di mantenere rapporti economici con Mosca, chi puntava sulla diplomazia, chi spingeva per un riarmo. Il risultato è stato un mosaico incoerente che ha preparato il terreno per la crisi esplosa nel 2022. Ed è significativo che, ancora oggi, la garanzia di deterrenza militare per l’Ucraina dipenda in larga misura dagli Stati Uniti.
Quando Vance afferma che “c’è speranza che nelle prossime settimane ci siano buone notizie”, lascia intendere che il ruolo americano rimane decisivo. Anche quando Washington non riesce immediatamente a produrre la soluzione, resta l’unico attore con sufficiente peso per guidare il processo. L’Europa, invece, pur essendo geograficamente, storicamente e culturalmente la più coinvolta nel conflitto, continua a svolgere un ruolo secondario. Le sue dichiarazioni di solidarietà, pur importanti, non si traducono in iniziative sufficientemente incisive per plasmare gli eventi.
Naturalmente, non si tratta di negare i meriti del progetto europeo, né di ignorare le enormi differenze culturali e storiche che separano le due sponde dell’Atlantico. Tuttavia, è evidente che il mondo del XXI secolo richiede una leadership forte, coerente e rapida. E nella maggior parte dei casi, questa leadership non arriva dall’Europa. Arriva dagli Stati Uniti.
Che piaccia o no, la storia degli ultimi 250 anni dimostra che l’Europa eccelle nel creare sistemi politici, economici e culturali di straordinario valore, ma fatica quando si tratta di impedire o risolvere i conflitti che lei stessa genera. La sua debolezza militare e la sua competizione interna impediscono la nascita di una vera potenza geopolitica unitaria. Finché questo non cambierà, l’Europa continuerà ad essere – come disse Metternich – “una pura espressione geografica”. Una regione del mondo ricca, raffinata e influente, ma incapace di prendere in mano il proprio destino senza l’aiuto determinante degli Stati Uniti.
Marco Baratto
