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L’elezione di Nicușor Dan al secondo turno delle presidenziali romene, con il punteggio più basso mai registrato per un vincitore di questa fase elettorale, apre uno scenario politico delicato e complesso. Il risultato rappresenta una vittoria aritmetica, ma non una consacrazione politica. Al contrario, è il segnale più chiaro che l’elettorato romeno si trova frammentato, polarizzato e in cerca di risposte concrete in un contesto economico e sociale in rapido deterioramento.
Nicușor Dan ha costruito la propria carriera politica come outsider: attivista civico, sindaco della capitale, figura lontana dalle dinamiche dei grandi partiti. Eppure, paradossalmente, ora si trova in una delle posizioni istituzionali più esposte, quella del presidente della Repubblica. La sua elezione è stata frutto più di un rifiuto dell’opzione opposta che di un sostegno entusiasta alla sua visione. Il secondo turno in Romania, fin dal 1996, ha sempre favorito la formazione di una “maggioranza positiva”, ovvero un’alleanza spontanea dell’elettorato attorno alla figura considerata “meno divisiva”. Anche questa volta, l’istinto collettivo del buon senso nazionale ha prevalso. Ma è un sostegno fragile, soggetto all’erosione se non accompagnato da risultati tangibili e da un linguaggio inclusivo. sfida concreta di Nicușor Dan è la composizione della sua squadra. In Romania, il presidente non è una figura puramente rappresentativa. A Palazzo Cotroceni, i consiglieri presidenziali – con rango di ministri – svolgono un ruolo essenziale nella definizione delle politiche di sicurezza, nella diplomazia e nei rapporti con la società civile. Non è un dettaglio tecnico, ma una leva fondamentale di potere. È attraverso queste nomine che il presidente può indirizzare la linea strategica della nazione.
La scelta delle persone che lo affiancheranno sarà quindi indicativa della visione politica di Dan. Vorrà circondarsi di tecnocrati o di fedelissimi? Di figure istituzionali di lungo corso o di outsider come lui? In entrambi i casi, dovrà tenere conto della necessità di costruire ponti in una società spaccata, soprattutto con quegli elettori che, pur non avendolo scelto al primo turno, lo hanno votato al secondo come argine alla deriva estremista.
Il contesto politico romeno suggerisce un’opzione non convenzionale: un governo tecnico, al di fuori delle logiche dei partiti tradizionali. Non sarebbe una novità assoluta in Europa centrale e orientale, dove l’instabilità politica spesso ha portato alla nomina di esecutivi guidati da tecnocrati. In Romania, questa opzione appare oggi non solo plausibile, ma forse necessaria.
L’emorragia di consensi verso i partiti estremisti – in particolare quelli di George Simion – è un campanello d’allarme che non può essere ignorato. I voti raccolti da Simion provengono in larga misura da aree rurali, regioni deindustrializzate, comunità che percepiscono l’Unione Europea più come imposizione che come opportunità. L’errore sarebbe bollare questi elettori come “arretrati” o “antimoderni”. Al contrario, le loro paure devono essere ascoltate e affrontate. Un esecutivo tecnico potrebbe risultare più credibile di uno politico nel proporre soluzioni pragmatiche, al di fuori della retorica ideologica.
Il rischio maggiore, se questo momento non verrà gestito con intelligenza e apertura, è una crisi istituzionale che possa sfociare in un’ulteriore avanzata della destra nazionalista. Le elezioni hanno dimostrato che una parte significativa del Paese è pronta a sostenere forze politiche radicali, anche a scapito della stabilità democratica. In questo senso, l’elezione di Dan rappresenta una pausa, non una soluzione. Se il nuovo presidente non riuscirà a rispondere con decisione ai bisogni delle fasce più vulnerabili, queste torneranno facilmente tra le braccia di chi promette soluzioni semplici a problemi complessi.
La Romania post-2024 si trova quindi in una fase di passaggio cruciale. Da una parte, c’è la possibilità di rilanciare il progetto europeo con maggiore trasparenza, con una burocrazia più efficiente, con investimenti mirati allo sviluppo delle zone rurali e alla reindustrializzazione sostenibile. Dall’altra, c’è il baratro di un populismo aggressivo, che potrebbe trovare una finestra di opportunità in una crisi di governo o in una stagnazione politica.
Nicușor Dan non è chiamato solo a rappresentare lo Stato, ma a interpretare una fase nuova della vita democratica romena. Il suo passato da attivista lo pone in una posizione interessante: può comunicare direttamente con l’elettorato, bypassando i partiti e i loro rituali spesso autoreferenziali. Tuttavia, dovrà saper tradurre questa forza comunicativa in atti concreti. La nomina di consiglieri capaci, la proposta di un esecutivo di alto profilo, l’apertura di un dialogo costruttivo con le forze sociali ed economiche del Paese sono solo i primi passi.
La Romania ha votato, ma non ha ancora scelto davvero. Il presidente eletto gode di una legittimità formale, ma il suo consenso è liquido, condizionato dagli sviluppi futuri. La scelta delle persone che lo affiancheranno e l’approccio alla formazione del governo saranno determinanti. In gioco non c’è solo la stabilità del prossimo mandato presidenziale, ma la traiettoria stessa del Paese nei confronti dell’Europa, dello sviluppo economico e della tenuta democratica. In un momento così delicato, la politica ha il dovere di rispondere con visione, ascolto e responsabilità. Se così non sarà, la prossima crisi potrebbe essere molto più profonda di una semplice crisi di governo.
Marco Baratto