Nei silenziosi margini della storia, dove le vestigia della grandezza incontrano i primi segni del declino, un uomo nacque in profonda dissonanza con i suoi tempi. Un rinomato giurista che parlava il linguaggio dei saggi, un filosofo permeato di fede, un medico che percepiva nella carne umana una mappa del pensiero: questo era Abu al-Walid Muhammad Ibn Ahmad Ibn Rochd, pensatore di Cordova, giudice supremo e ultimo barlume di lucidità in un orizzonte sempre più oscuro.
Ibn Rochd non era semplicemente un intellettuale in una città malata; incarnava un’insurrezione dell’intelletto di fronte all’oscurantismo, un’ardente ricerca di riconciliazione tra Rivelazione e Ragione. La sua filosofia era una serena insubordinazione: un’ermeneutica salvifica, una teologia luminosa forgiata dall’interpretazione. A coloro che lo accusavano di empietà, ribatté con audacia: “Nessun anatema dove l’interpretazione è possibile; nessun consenso dove il significato richiede l’esegesi”. Insegnava che il testo sacro contiene una superficie per il profano e un abisso per il sapiente, e che l’esegesi era il ponte che conduce dalla lettera al significato, dall’apparente al trascendente.
Nel Fasl al-Maqal, scrisse solennemente: “La Legge è verità, la saggezza è verità, e la verità non può contraddire la verità”. Tuttavia, non appena osò usare la ragione come strumento per leggere il testo, attirò su di sé la vendetta dei poteri combinati del dogma e del potere. Non contenti di contestarlo, i dottori della legge, armati di arida pietà, cercarono di seppellire il suo pensiero sotto la cenere del sospetto. Alcuni, come Ibn al-Arabi al-Ma’afiri, dichiararono: “Nessun credente può sostenere ciò che sostengono questi filosofi”. Altri, come Ibn al-Salih, affermano che “chiunque impari la logica è una persona empia”. »
Con l’avvento del califfo Al-Mansur degli Almohadi, le nubi si addensarono. Ibn Rochd fu esiliato a Elissana, un villaggio ebraico in Andalusia, e le sue opere furono bruciate nelle moschee tra le grida di coloro che non sapevano distinguere la luce dal fuoco. Un pensatore che viene condannato perché pensa, una fiamma che si spegne perché illumina. Questa è la perfetta allegoria del declino.
Ma che ironia! Mentre il suo nome svanì in Oriente, i suoi libri illuminarono l’Occidente. Tradotti in latino, i suoi commentari furono esaminati attentamente dalle menti più grandi d’Europa: Tommaso d’Aquino, Spinoza, Cartesio, Dante. In lui gli europei riscoprono Aristotele, ma soprattutto la nobiltà del dubbio, la dignità del ragionamento, la sacralità dell’interrogare. Mentre Parigi insegnava le sue opere, Marrakech dimenticava la sua tomba. Mentre l’Occidente iniziava il suo Rinascimento, l’Oriente erigeva muri attorno al pensiero.
Ibn Rushd non era un ribelle alla fede; ne era il difensore più esigente. Voleva un Islam forte, non attraverso il silenzio, ma attraverso la capacità di rispondere alle domande. Credeva che la fede privata della ragione fosse un rituale senz’anima e che la ragione senza fede fosse una macchina senza scopo. “Se ti viene data la scelta tra una mente ardente e un libro che brucia, scegli la mente: perché riscriverà i libri. È con questa massima che il suo respiro attraversa i secoli.
Le università occidentali lo soprannominarono il Commentatore, non solo per la sua lettura di Aristotele, ma perché aveva restituito al pensiero il diritto di parlare. Ha fatto più che commentare un filosofo: ha resuscitato la libertà di pensiero. Eppure Ibn Rochd morì in esilio, ignorato, annientato nell’indifferenza. Il cronista Ibn al-Abbâr annotò con malinconia: «Scomparve come uno straniero, dopo che la sua luce fu soffocata dall’oscurità dei teologi.»
Oggi il nostro mondo sta ripetendo, in un sinistro circolo vizioso, il dolore di Ibn Rochd: i pensatori vengono emarginati, l’intelligenza è sospettata, l’interpretazione è denigrata. Nell’era delle certezze prefabbricate, mettere in discussione diventa eresia e pensare diventa tradimento. Eppure, dalle profondità delle sue ceneri, Ibn Rochd ci sussurra ancora: “La verità non contraddice mai la verità. Ma noi rispondiamo con il silenzio, quel silenzio che bandisce la ragione in nome di un testo che non vogliamo più comprendere.
Perché l’insegnamento fondamentale di Ibn Rochd è chiaro: un dogma che teme il dubbio non è fede, ma paura. Una religione che teme l’interpretazione non merita di parlare alla coscienza. In questi tempi di violenza santificata, di ideologie camuffate da decreti e di fatwa controllate a distanza, Ibn Rochd rimane una sentinella di lucidità: «L’interpretazione non è empietà, è una seconda vita per il testo.»
Cari lettori, l’ironia più crudele della nostra storia è che l’Occidente si è ribellato grazie agli scritti di un uomo che l’Oriente aveva maledetto. Una civiltà che doveva essere soffocata in Andalusia venne salvata a Parigi dalle scintille di Cordova. No, Ibn Rochd non fu sepolto a Marrakech. Viene sepolto ogni volta che l’esegesi viene soffocata, il pensatore viene esiliato e le porte dell’ijtihad vengono chiuse. Ma risorge ogni volta che una mente osa pensare, porsi domande, rifiutarsi di inginocchiarsi davanti alla sacra ignoranza.
Non abbiamo bisogno di piromani. Ciò di cui abbiamo bisogno sono degli scout. E Ibn Rochd… non era una semplice fiamma, ma una marcia di fuoco. Un fuoco dolce, razionale, ardente, che i secoli non sono riusciti a spegnere.
È più di un filosofo. Si tratta di un progetto di riforma permanente. Finché lo dimenticheremo, torneremo all’oscurità. Perché incarna il dramma del pensiero arabo: perseguitato quando si mette in discussione, bandito quando si scontra. E se vogliamo comprendere il nostro presente, non basta rileggere Aristotele: dobbiamo rileggere Ibn Rochd e rileggere in lui ciò che abbiamo rifiutato di essere. Ogni civiltà che non onora i propri pensatori si scava la fossa da sola.
Ibn Rochd è ancora vivo. Purché solo uno di noi osi interpretare.
Zakia Laaroussi