Oggi, l’Angola celebra la Giornata dell’Eroe Nazionale. Una giornata dedicata alla figura di Agostinho Neto, primo Presidente del paese indipendente, medico, poeta e leader rivoluzionario. Per molti, simbolo della lotta contro il colonialismo, dell’affermazione nazionale e della speranza di un popolo. Ma oltre alla figura storica, questa giornata invita a una riflessione più profonda: cosa celebriamo quando diciamo “eroe”? Cosa rimane della sua memoria? E cosa, in realtà, è cambiato dal giorno della proclamazione dell’indipendenza nel 1975?
Il colono è partito. Ma la struttura simbolica che ha lasciato è ancora attiva, solo vestita in modo diverso. Il modello di saccheggio, di esclusione sociale e di silenzio repressivo non è stato smantellato con la rimozione della bandiera portoghese. È stato, in molti aspetti, appropriato e proseguito, ora con una nuova dinamica: quella dei “camaradas” al potere.
Con uno sguardo antropologico, “l’eroe nazionale” non è solo un nome sul calendario. È una costruzione simbolica, uno specchio in cui la nazione vuole riflettersi. Ma esiste una dissonanza tra lo specchio e la realtà. Perché se l’eroe nazionale rappresenta la liberazione, la giustizia e il sacrificio per tutti, il popolo che lo invoca continua a vivere sotto le cicatrici di una libertà rimandata, di una giustizia che non scende mai in strada, e di un sacrificio che pesa sempre sugli stessi.
Agostinho Neto, nei suoi discorsi e nei suoi versi, parlava dell’“uomo nuovo”, della liberazione totale, della dignità umana. Ma l’uomo nuovo promesso sembra essere stato sequestrato da un sistema vecchio, in cui la lotta di classe è stata sostituita da un’élite dominante che concentra le risorse, reprime la critica e distribuisce i benefici dello Stato in base alla fedeltà politica, non al merito o al bisogno.
Oggi, mentre si depongono fiori al Memoriale, milioni di angolani vivono il lutto silenzioso dell’esclusione. Giovani disoccupati, contadini senza terra, insegnanti mal pagati, medici esausti, quartieri senza acqua, senza luce, senza pane. Nel frattempo, un’élite continua ad arricchirsi all’ombra della memoria dell’eroe, usando il suo nome come scudo per proteggere pratiche che lo stesso Neto avrebbe condannato con veemenza.
La retorica ufficiale insiste che “la cosa più importante è risolvere il problema del popolo”, ma la pratica dimostra il contrario: il problema del popolo è diventato il business di chi governa. Le priorità hanno cambiato rotta. L’espressione popolare “la capra mangia dove è legata” è passata da giustificazione informale a dottrina silenziosa di governo. Hanno promesso di “migliorare ciò che va bene e correggere ciò che va male”, ma il risultato finale è stato un altro: hanno peggiorato tutto.
Oggi, gli slogan hanno preso il posto delle soluzioni. Sono diventati armi di distrazione di massa. Espressioni fatte come “governare per il popolo”, “combattere la povertà”, “diversificare l’economia”, “riformare la giustizia”, si ripetono come mantra nei discorsi ufficiali, ma svuotate di azione concreta. Il linguaggio politico è diventato un teatro, e il popolo, ridotto a una platea silenziosa. Lo slogan ha sostituito l’idea, il motto ha sostituito il piano, e la propaganda ha sostituito la verità.
Queste frasi vengono lanciate come se fossero risposte, quando non sono altro che scudi contro il malcontento. È la domesticazione della coscienza collettiva tramite la ripetizione. Il governo si è trasformato in un esercizio di marketing, dove la realtà non conta finché la narrativa regge. Come se il popolo fosse incapace di capire che la fame non si placa con le parole, che la gioventù non trova lavoro con le promesse, che la giustizia non si fa dai palchi, e che lo sviluppo non arriva con gli slogan.
Celebrare l’eroe nazionale dovrebbe significare confrontarsi con l’ideale che egli rappresenta. E l’ideale non era quello di un’indipendenza formale, ma di una liberazione integrale: del corpo e della coscienza, del sistema coloniale e delle sue repliche interne, della povertà e dell’ignoranza, della menzogna e dell’oppressione.
È tempo di chiedersi, con onestà: chi sono oggi gli eroi dell’Angola? Sono coloro che resistono in silenzio nei musseques? Sono quelli che denunciano la corruzione a rischio della propria vita? O sono quelli che mantengono il popolo tranquillo con slogan, monumenti e giorni festivi?
Il vero omaggio all’eroe nazionale non sta nel rituale ufficiale, ma nell’impegno etico per la giustizia. Sta nella rottura con il modello ereditato dal colono. Sta nel coraggio di dire che l’indipendenza, senza una reale liberazione, è un progetto incompiuto. Che la sovranità, senza equità, è solo una formalità. E che l’eroismo, se non serve il popolo, è solo propaganda.
La nuova generazione ha bisogno di eroi vivi, non solo monumenti. Ha bisogno di leader che non usino la storia come trono, ma come chiamata. Che non ripetano l’errore di diventare i nuovi coloni del proprio popolo.
In questa Giornata dell’Eroe Nazionale, più che ricordare il passato, è urgente riscattare il futuro. E per farlo, forse è necessario riconoscere ciò che Frantz Fanon ha avvertito: la più grande tragedia della decolonizzazione è quando gli ex oppressi riproducono il comportamento degli oppressori. Perché il colono è partito, sì. Ma molti vivono ancora come se non se ne fosse mai andato. Ha solo cambiato uniforme.
L’Angola è profondamente in una situazione critica di povertà estrema.
Pedro Paulino Sampaio