Negli ultimi anni, in Italia come in Europa, un’espressione si è fatta strada con sempre maggiore frequenza: “basta buonismo”. Una frase che sembra semplice, quasi uno sfogo da bar, ma che in realtà porta con sé implicazioni profonde e inquietanti. Dire “basta buonismo” equivale a delegittimare la compassione, il dialogo, l’inclusione e l’apertura verso l’altro; significa trasformare la solidarietà in debolezza e la tolleranza in un vizio. Se tolto il velo retorico, ciò che resta è un implicito invito al suo opposto: il “cattivismo”, la legittimazione dell’odio, della chiusura, della brutalità come nuova norma sociale.
Questo fenomeno non è nuovo. Miguel de Unamuno, uno dei più grandi intellettuali spagnoli del Novecento, lo aveva intuito con lucidità il 12 ottobre 1936, quando, nel paraninfo dell’Università di Salamanca, si trovò di fronte al grido di “¡Viva la muerte!” lanciato dai falangisti e dal generale Millán Astray. A quel paradosso — “viva la morte” — Unamuno rispose con parole memorabili: “Vincerete, ma non convincerete. Vincerete perché avete molta forza bruta, ma non convincerete, perché convincere significa persuadere. E per persuadere vi manca ragione e diritto.”
Quelle parole, pronunciate in un contesto dominato dalla violenza e dall’imposizione del nazionalismo franchista, ci ricordano che ogni rifiuto della ragione e della pietà prepara il terreno all’autoritarismo. Oggi, il rifiuto del cosiddetto “buonismo” non è che un’eco di quell’antico paradosso: un grido che nega la vita civile e apre alla brutalità come nuovo orizzonte politico.
Dal franchismo al populismo del XXI secolo
Unamuno comprese che il nazionalismo di Franco e di Astray non rappresentava un semplice amore per la patria, ma una sua deformazione: una Spagna mutilata a immagine dei suoi capi, dove la forza bruta sostituiva il diritto e l’intimidazione prendeva il posto della persuasione. Lo stesso generale Miguel Cabanellas, pur essendo parte del fronte ribelle, ammonì i colleghi generali il 21 settembre 1936, opponendosi alla nomina di Franco a capo indiscusso: “Se gli date la Spagna, crederà che sia sua e non permetterà a nessuno di sostituirlo in guerra o dopo, fino alla sua morte.” Una profezia che si rivelò tragicamente esatta.
Quel modello autoritario, nato dal mito della forza, sopravvisse a lungo e oggi torna sotto nuove vesti. In Spagna, in Francia, in Italia e in altre parti d’Europa assistiamo alla rinascita di un nazionalismo che non è patriottismo, ma culto della chiusura e dell’identità esclusiva. Si invoca l’“ordine”, si chiede di fermare il “buonismo”, si punta il dito contro chi difende i diritti dei migranti, delle minoranze, degli ultimi.
Il parallelo con il franchismo non è azzardato: anche allora la parola venne soffocata, anche allora la pietà fu bollata come debolezza, anche allora la forza fu spacciata per virtù.
Il mito del “cattivismo” come nuovo linguaggio politico
Quando si dice “basta buonismo”, ciò che si propone implicitamente è un modello sociale in cui il conflitto non viene mediato dalla ragione ma imposto dalla forza, dove l’alterità è un pericolo e non una ricchezza. È il linguaggio dell’esclusione, dell’“us vs them”, dove il nemico è sempre a portata di mano: lo straniero, l’oppositore, l’intellettuale, chiunque non si pieghi all’omologazione.
Ma la storia ci insegna che i veri terroristi, in Italia come in Europa, furono riconosciuti non da slogan gridati in piazza ma dalla coscienza democratica. Le Brigate Rosse e i NAR non vennero classificati “terroristi” da un potere arbitrario, ma perché la società e i partiti democratici — dal PCI alla DC — compresero la minaccia reale alla convivenza civile.
Ridurre tutto a etichette rovesciate, come si fa oggi, è una strategia per neutralizzare il dissenso e normalizzare l’odio.
Il pericolo delle parole che aprono le porte alla violenza
Il linguaggio non è neutro. Dire “basta buonismo” non è un’innocua scorciatoia retorica: è un modo per legittimare la brutalità. È come gridare “viva la morte” in un’università, trasformando un paradosso in bandiera politica. Non è un caso se i populismi contemporanei hanno fatto del linguaggio violento e semplificato la loro arma più efficace: con slogan di poche parole, costruiscono mondi divisi in buoni e cattivi, forti e deboli, patrioti e traditori.
Ma un popolo non cresce nella brutalità: cresce nel dibattito, nell’ascolto, nella capacità di includere. Senza questi elementi, la politica diventa solo una palestra di muscoli, dove vince chi urla più forte e colpisce più duro.
Conclusione: vinceranno, ma non convinceranno
Oggi, come nel 1936, la tentazione del nazionalismo e del cattivismo è forte. Offre soluzioni facili a problemi complessi: basta migranti, basta dissenso, basta pietà. Ma la storia ci ricorda che queste scorciatoie portano solo a mutilazioni sociali e morali.
Il grido di Unamuno risuona ancora: “Vincerete, ma non convincerete.” È la lezione che dobbiamo tenere a mente ogni volta che qualcuno bolla la solidarietà come “buonismo”. Perché dire “sì” al cattivismo significa dire “sì” all’odio, alla mutilazione della democrazia, alla morte della ragione.
Se vogliamo davvero difendere la libertà e la dignità dei nostri popoli, dobbiamo avere il coraggio di ribadire che la pietà non è debolezza, che il dialogo non è resa, che il buon senso e il buon cuore non sono insulti. Sono la nostra unica difesa contro il ritorno dell’ombra autoritaria che già una volta ha devastato l’Europa
Marco Baratto