C’è un circolo vizioso che perseguita l’intellettuale, un circolo che ha la forma di un’antica maledizione e che si aggrappa alla coscienza ovunque vada. È un circolo noto solo a coloro che sono nati con una scintilla di conoscenza in fronte, per poi ritrovarsi in patrie che sanno solo ignorare la luce. Questo circolo è ciò che crea questo orribile paradosso: la patria che esige il talento è la stessa che lo espelle quando arriva.
La nazione, nella sua struttura più profonda, sembra afflitta da una strana cecità: vede il talento quando è lontano, ma non quando è proprio di fronte a lui. Sente gli applausi provenienti da oltre i suoi confini, ma fa orecchie da mercante alle voci che lo invocano dall’interno fino a renderle rauche. È come se i suoi occhi si spalancassero solo per vedere ciò che luccica da lontano, non ciò che brilla proprio sotto il suo naso.
Così, l’individuo competente diventa un fantasma trasparente all’interno del suo stesso Paese, la sua presenza fugace come l’aria, inosservata da tutti. Ma nel momento in cui riceve un riconoscimento esterno, si trasforma improvvisamente in una “scoperta sbalorditiva”, prima invisibile, ora adornata da una strana luce. La nazione non riconosce i propri successi, eppure applaude ciò che gli altri le rubano. E questo è il difetto più grande: un riconoscimento tardivo e vacillante che arriva solo quando la nazione è imbarazzata dalla cruda realtà.
In questo squilibrio strutturale, nasce la partenza. La partenza non è uno spostamento geografico, ma uno sconvolgimento interiore, una protesta filosofica dichiarata dalla mente quando dice a se stessa: non ha senso rimanere in un luogo non visto. La partenza diventa una necessità per preservare ciò che resta del respiro, del significato, della sensazione che lo specchio rifletta ancora l’immagine dell’umanità. Perché attendere nella propria patria è come sedersi in un orologio senza lancette: il tempo non si muove, non nasce alcuna confessione e non si apre alcuna porta.
Ma la sofferenza non finisce all’aeroporto. In esilio, l’intellettuale sperimenta un altro tipo di sofferenza: la sofferenza dell’alienazione e della sottorappresentazione. L’intellettuale esiliato vive in una sorta di doppio vuoto: è lontano dalla sua patria e allo stesso tempo invisibile all’interno delle reti della sua rappresentazione esterna. È come se l’esilio ampliasse la distanza tra lui e la sua patria, ma ampliasse anche la distanza tra lui e le istituzioni che si considerano la sua voce ufficiale. Così, il viaggio dell’esilio diventa un viaggio di autoaffermazione, ma al di fuori di tutti i quadri che avrebbero dovuto accoglierlo fin dall’inizio.
Poi arriva il momento del ritorno. Il ritorno non è semplicemente il movimento di un corpo che torna in patria, ma un movimento di conoscenza che è tornata espansa, satura di esperienza, separazione e ricerca di riconoscimento in luoghi in cui non ha avuto origine. Eppure, la patria non vede nel ritornato alcun nuovo valore, ma piuttosto un nuovo “imbarazzo”: il mondo ha visto ciò che lui non ha visto, ed è ora costretto a riconoscerlo per salvare la faccia. L’incontro tra l’intellettuale che torna e le istituzioni che lo hanno ignorato assomiglia a una scena surreale: la mente viene espulsa dalla porta, poi ritorna dal balcone, e l’istituzione che gli ha negato la conoscenza si precipita verso di lui come se fosse la scopritrice.
Questo movimento tra partenza e ritorno non è semplicemente un percorso di vita, ma un profondo scandalo intellettuale e culturale che mette a nudo la profonda fragilità delle nostre patrie. Perché ci fidiamo di ciò che viene dall’estero più di ciò che viene da dentro? Perché una nazione ha bisogno di un’approvazione straniera per convalidare il proprio popolo? E perché importiamo meno competenze di quelle che abbiamo perso, solo per poi glorificarle come se fossero un’impresa monumentale?
È la solita vecchia malattia: una malattia che ci fa vedere il lontano più grande del vicino, la distanza più importante del valore e la luce esterna più brillante di quella che creiamo noi stessi. Una malattia culturale che spinge la nazione a riprodurre l’emarginazione, a espellere i talenti e poi a recuperarli quando se ne sono andati.
Tuttavia, il viaggio del talento non è una sconfitta. È una protesta scritta a fuoco. Una protesta che mette a nudo la debolezza delle strutture tradizionali e dimostra che la conoscenza non aspetta il riconoscimento ufficiale e che l’intellettuale rimane più grande delle mappe, più profondo dei confini e più forte dell’emarginazione ereditata dalle istituzioni.
Una nazione che non riconosce i propri intellettuali rimarrà cieca nei loro confronti, anche se tornassero carichi dell’illuminazione del mondo. Chi se ne va non sta fuggendo; sta attraversando uno spazio che permette loro di diventare ciò che erano destinati a essere nella loro patria.
In definitiva, l’intellettuale, pur essendo intrappolato in un ciclo di sventure, rimane colui che vede oltre i ciechi confini della nazione, colui che crea valore anche se la nazione non riesce a fornirgli un posto.
Zakia Laaroussi
