Le elezioni presidenziali in Algeria, concluse con la vittoria prevedibile di Abdelmadjid Tebboune, hanno messo in luce diverse problematiche sistemiche che affliggono il Paese, a partire dall’affluenza alle urne, crollata sotto il 50%. Questo dato non è semplicemente un segnale di disillusione politica, ma un indicatore di una crisi profonda che coinvolge i diritti umani, la mancanza di rappresentanza autonoma della regione della Cabilia e il ruolo preponderante dell’esercito nel controllo del processo elettorale. Tuttavia, ciò che appare ancora più sconcertante è l’apparente silenzio dell’Occidente di fronte a queste problematiche, soprattutto se paragonato al modo in cui viene trattata la situazione politica in altri Paesi, come la Russia e l’Ungheria.
Il dato dell’affluenza alle urne inferiore al 50% è uno specchio del malcontento popolare. Le elezioni, sebbene formalmente democratiche, hanno visto una partecipazione minima, segno che una gran parte della popolazione non crede più nella possibilità di un vero cambiamento attraverso le urne. Questo fenomeno non è nuovo: la mancanza di fiducia nelle istituzioni e la percezione che le elezioni siano già decise a priori ha portato molti algerini a disertare i seggi, vedendo nel voto una semplice formalità priva di reale impatto. Abdelmadjid Tebboune, una figura strettamente legata al regime precedente, è stato eletto presidente in un contesto in cui l’opposizione è stata marginalizzata e le proteste del movimento Hirak, che chiedevano riforme profonde e una vera democratizzazione del Paese, sono state represse con forza.
Un altro aspetto cruciale da considerare è la questione della Cabilia, una regione dell’Algeria abitata prevalentemente da berberi, che da tempo rivendica maggiore autonomia. La regione è storicamente marginalizzata e i suoi abitanti sono spesso vittime di discriminazioni da parte del governo centrale. Le richieste di maggiore autonomia o addirittura di indipendenza sono state sistematicamente ignorate o represse con forza, e il governo algerino ha spesso etichettato i movimenti autonomisti come estremisti o terroristi.
La mancanza di autonomia della Cabilia non è solo una questione politica interna, ma riflette una più ampia problematica di negazione dei diritti delle minoranze. La negazione dell’identità culturale e linguistica dei berberi e l’incapacità del governo di riconoscere e rispettare la diversità etnica del Paese sono segnali di un regime che non riesce o non vuole adottare politiche inclusive. L’assenza di un dibattito serio su queste questioni in seno alla comunità internazionale è preoccupante, soprattutto se consideriamo che i diritti delle minoranze e l’autonomia regionale sono questioni centrali nel discorso globale sui diritti umani.
L’esercito algerino ha storicamente avuto un ruolo dominante nella politica del Paese. Le elezioni, sebbene formalmente democratiche, sono spesso influenzate o addirittura controllate dai vertici militari. Questo potere informale dell’esercito rappresenta una delle principali barriere alla democratizzazione dell’Algeria. Anche nelle ultime elezioni, il ruolo dell’esercito è stato evidente: la selezione dei candidati, la gestione delle proteste e la repressione dell’opposizione sono tutte attività in cui l’apparato militare ha avuto un ruolo decisivo.
L’influenza dell’esercito nelle elezioni algerine non è una novità, ma è sintomatica di un sistema in cui la transizione verso una vera democrazia è bloccata. La separazione dei poteri, uno dei pilastri della democrazia, è praticamente inesistente in Algeria, e il potere militare agisce come un’ombra onnipresente sul processo politico. Le elezioni diventano così un esercizio di legittimazione del regime piuttosto che una reale espressione della volontà popolare.
Ciò che sorprende maggiormente è il silenzio dell’Occidente di fronte a questa situazione. Mentre Paesi come la Russia e l’Ungheria sono stati spesso definiti “democrature” per il loro mix di autoritarismo e democrazia apparente, la situazione in Algeria sembra non ricevere la stessa attenzione. Questo silenzio può essere spiegato da una serie di fattori, tra cui gli interessi geopolitici ed economici dell’Occidente nella regione. L’Algeria, con le sue risorse energetiche e la sua posizione strategica nel Mediterraneo, è un partner importante per molti Paesi occidentali, che potrebbero temere di compromettere le loro relazioni critiche criticando apertamente il regime.
Tuttavia, questa mancanza di critica rischia di minare la credibilità dell’Occidente come difensore dei diritti umani e dei principi democratici. Se le violazioni dei diritti umani e la mancanza di democrazia vengono condannate in alcuni Paesi, ma ignorate in altri per ragioni di convenienza, il messaggio che viene trasmesso è quello di un doppio standard. La comunità internazionale, e in particolare l’Occidente, dovrebbe essere coerente nelle sue posizioni e non permettere che gli interessi economici prevalgano sui principi fondamentali.
Le elezioni presidenziali in Algeria hanno portato alla luce una serie di problematiche strutturali che affliggono il Paese: la disillusione popolare espressa dalla bassa affluenza alle urne, la mancanza di autonomia per la regione della Cabilia, il ruolo preponderante dell’esercito nel processo politico e il silenzio dell’Occidente di fronte a queste violazioni dei diritti umani. È necessario che la comunità internazionale, e in particolare l’Occidente, presti maggiore attenzione alla situazione in Algeria e agisca in modo coerente con i principi democratici che sostiene di difendere. Solo così si potrà sperare in un futuro in cui i diritti di tutti gli algerini siano rispettati e in cui le elezioni rappresentino davvero la volontà popolare.
Marco Baratto