Non ho scritto questo testo solo per nostalgia, ma dopo aver visto il caftano marocchino esposto nelle principali capitali come un “modello di ispirazione orientale”, o ridotto all’immagine folcloristica di una modella in passerella. Ho quasi esclamato: “Non è così che viene descritto il caftano!”.
Il caftano marocchino non è solo un delicato ornamento femminile; è il sangue di antiche città, la pazienza delle artigiane e una storia domestica che non è stata scritta nei libri. Contiene tracce delle civiltà che sono passate di qui:
dall’Andalusia, dalla Fez merinide, dalla Marrakech saadiana, e dalle donne che portavano aghi come armi, difendendo bellezza e dignità.
Caro mondo, e caro lettore, il caftano è un documento civile delle donne marocchine; contiene la loro identità, classe sociale, stato psicologico, gusto, educazione e sogni.
Contiene storie di matrimoni sui tetti delle case e le lacrime delle nonne mentre ricamano la gioia dell’Eid. Contiene il colore dell’henné, il profumo del muschio e il suono di “ta’raj” e “aita”.
Non è solo un capo d’abbigliamento, ma una storia che si indossa, una dignità che si ricama e un’identità che cammina sulla terra.
Non mi dispiace esporlo all’estero o farlo indossare a donne di altre culture, ma mi rifiuto di lasciarlo sequestrare, trasformare in qualcosa di senza origine o attribuirlo a stilisti che non conoscono il Souk Semmarine, il Derb Ezzhar di Fez, o che hanno sentito il profumo d’agata quando le madri ricamavano la sfifa con magia.
Ho indossato il caftano per la prima volta a Parigi, nel mio piccolo appartamento nel XIII arrondissement, e ho ricamato una rosa sul petto, la cui forma ho imparato da mia madre. Il tessuto tra le mie mani non era un vestito, ma terra, e mi sentivo come se non stessi cucendo, ma stessi ricostruendo la mia patria sul mio petto. Sono uscita indossandolo e una donna francese mi ha esclamato con stupore:
“È magnifico! Lei indossa la sua storia!”.
Ho risposto: “No, signora… indosso il mio Paese”.
In un’epoca di rapidi abbagli e di un mercato della moda distorto, il caftano rimane la nostra risposta profonda:
non siamo un pezzo di tessuto ricamato, siamo una storia che si indossa e un’identità che non muore con il cucito preconfezionato.
Il caftano marocchino non invecchia mai, perché non è un’epoca singola, ma strati di civiltà tramandati come l’occhio, la mano e il sogno. E ogni suo punto è un piccolo atto di resistenza… contro l’oblio.
Oggi, mi ergo con il mio pennello per rendere omaggio al caftano marocchino, un essere vivente forgiato con fili d’oro e pazienza, dalle stesse artigiane e madri che hanno custodito le festività tra le sue pieghe, lasciandoci un’eredità duratura.
Il caftano non è un ornamento per chi cerca di apparire “tradizionale”, né un’immagine da appendere nelle pubblicità. Piuttosto, è un ricordo di carne e sangue, drappeggiato sul corpo, che porta con sé le voci delle nonne e i sospiri di antiche città, da Fez a Oujda, da Marrakech a Tetouan.
In ogni punto “sfifa”, in ogni bordo ricamato, c’è una storia che non si insegna a scuola, né si documenta, ma si tramanda di mano in mano, di madre in figlia, dal cuore al tessuto.
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Chi indossa il caftano non indossa la moda, ma ricorda l’Andalusia, i Merinidi, Moulay Idriss e Souk Samarin. Indossa vene che hanno attraversato il fuoco delle guerre e la rugiada dei campi. Non si veste per abbagliare, ma per dire:
“Eccomi… tutto il Marocco è sulle mie orme”.
Attenzione a non ridurre il caftano a falsi racconti, a tradurlo fuori contesto o a presentarlo senza attribuzione. Qualsiasi caftano che non menzioni il nome dell’artigiana, il profumo del mercato popolare o il sudore che colava dalla fronte della donna che lo cucì per sua figlia è un caftano privo di anima.
Un omaggio a chi ha confezionato il caftano… non nelle vetrine delle boutique, ma nei forni di casa, alla luce delle lampade a olio, al suono di canti amazigh e marocchini. Un omaggio alle artigiane, alle innovatrici, alle marocchine che non si limitano a confezionare un abito, ma creano un significato.
E a chi chiede:
“Da dove viene questo vestito?”,
rispondo: “Dal mio paese… Dal mio cuore… Da un tempo che non si può comprare”.
Zakia Laroussi