Jannik Sinner ha vinto da italiano. Non da italiano qualsiasi, ma da figlio di una minoranza linguistica, da discendente di un popolo che ha vissuto sulla propria pelle l’incontro, spesso forzato, tra imperi e nazioni, lingue e identità. La sua vittoria non è soltanto sportiva: è il simbolo vivente di un’Italia che, nonostante tutto, è più ampia, più complessa e più ricca di quanto certi racconti omologanti vorrebbero farci credere. Sinner è nato a Innichen, volgarmente ribattezzata San Candido, come se un nome potesse cancellare le radici di una comunità. È figlio del Tirolo, di quella porzione di territorio e cultura che l’Italia ha annesso con la forza dopo la Prima guerra mondiale, sventolando il tricolore su identità che non si piegarono mai del tutto.
C’è chi, ancora oggi, gli dà dell’austriaco, come se si trattasse di un’accusa. Come se ci fosse qualcosa da nascondere, o da sminuire. Ma Sinner non ha nulla da nascondere: è italiano, certo, ma lo è nei termini in cui l’identità nazionale è frutto della storia, non di un’ideologia ottocentesca. È italiano come lo sono i figli e i nipoti di coloro che, dopo il 1918, si videro imposta una nuova cittadinanza — quella italiana — dopo due anni di apolidia forzata. Non fu una scelta, fu un’imposizione. Proprio come fu un’imposizione il divieto, ancora oggi vigente, di poter accedere alla cittadinanza austriaca per chi discende da quelle stesse famiglie.
E qui si cela il paradosso taciuto: migliaia di cittadini europei, discendenti da persone nate nel vecchio Tirolo austriaco, possono oggi teoricamente diventare cittadini di quasi qualsiasi Stato del mondo, ma non dell’Austria. Il Trattato di Saint-Germain del 1919, figlio diretto della Prima guerra mondiale, lo vieta ancora. È una norma che, sebbene superata dal tempo e dallo spirito dell’Unione Europea, continua ad agire come uno spettro giuridico, mantenendo artificialmente divise identità che invece la storia ha già intrecciato da secoli.
Questa è la vera sconfitta di cui nessuno parla: mentre in Italia concede — giustamente — la cittadinanza ai bisnipoti degli emigrati in Sud America, nel cuore dell’Europa c’è una popolazione che si vede ancora negare una doppia identità che le appartiene naturalmente. Una popolazione che porta nel sangue la multiculturalità dell’Impero austro-ungarico, quella pluralità che fu grandezza e non confusione. Una popolazione che non ha mai smesso di sentirsi parte di una storia complessa e stratificata, ma che continua a essere trattata secondo i dogmi rigidi del nazionalismo post-bellico.
La storia della popolazione trentina e tirolese durante la Grande Guerra è tragica e poco raccontata. I censimenti parlano chiaro: tra richiamati alle armi, profughi, sfollati e internati, la popolazione del Trentino si dimezzò rispetto al 1910. Chi rimase fu sottoposto a un rigido controllo militare, costretto al lavoro coatto, anche femminile, e ridotto alla fame da continue requisizioni.
Chi fuggì in Italia trovò spesso un’accoglienza fredda, se non apertamente ostile. Adone Tomaselli, figura chiave nell’assistenza ai profughi, scriveva nel 1916 lettere desolate da parte di rifugiati che si sentivano chiamare “spie” o “parassiti”, isolati da un’Italia che non li riconosceva ancora come propri.
È da quel dolore che nascono storie come quella di Sinner. È da quella marginalità forzata che si costruiscono identità forti, consapevoli, capaci di unire più mondi. La sua vittoria ci ricorda che l’Italia è anche questo: una nazione composita, fatta di territori e culture che non hanno mai coinciso con l’immaginario unitario e omologante del nazionalismo novecentesco.
Chi continua a sottolineare con toni sprezzanti l’origine tirolese o “austriaca” di Sinner, rievoca una retorica che pensavamo sepolta nel 1914. Lo fa ignorando che l’identità italiana non si costruisce per sottrazione, ma per somma: di lingue, storie, culture, e anche di ferite.
Sinner ha vinto da italiano, ma da italiano di confine. Da italiano plurale. Da italiano che incarna — inconsapevolmente o no — una storia dimenticata, una giustizia ancora negata, una possibilità mancata di riconciliazione tra le radici dell’Impero austro-ungarico e le moderne democrazie europee.
La sua racchetta ha colpito più di una pallina: ha colpito la coscienza di un paese che troppo spesso dimentica le sue periferie storiche e culturali. E nel farlo, ha dato voce a chi, da oltre un secolo, aspetta di essere riconosciuto per ciò che è: non una reliquia della guerra, ma il simbolo vivente di un’Europa che può e deve essere più giusta, più inclusiva, più vera.
Marco Baratto