Ogni autunno, l’Australia costruisce ponti per i granchi rossi dell’Isola di Natale, affinché possano completare in sicurezza la loro secolare migrazione. Allo stesso tempo, gli africani tentano di attraversare il Mediterraneo su imbarcazioni precarie, senza ponti, senza soccorso, senza festeggiamenti. Questo contrasto, tra la protezione offerta all’animale e il rifiuto inflitto agli umani, rivela una delle più sorprendenti ironie morali del nostro tempo.
Ogni ottobre, le prime piogge innescano un miracolo scarlatto sull’Isola di Natale: la terra inizia a muoversi.
Milioni di granchi rossi lasciano le loro tane, inondano strade e giardini e si dirigono, con maestosa lentezza, verso l’oceano.
Le autorità chiudono le strade, installano ponti sospesi e adattano la vita quotidiana al ritmo dei crostacei. I residenti lavorano da remoto, i fotografi si inginocchiano, i media festeggiano.
È la vita, dicono, che trionfa.
Nel frattempo, a pochi fusi orari di distanza, altre migrazioni avvengono senza telecamere né ponti. Migliaia di uomini e donne lasciano il Sahel, il Corno d’Africa o il Golfo di Guinea, attraversano il Sahara, poi il mare.
Anche loro avanzano, guidati da una stagione interiore: quella della disperazione e della sopravvivenza.
Ma il loro attraversamento non ispira né rispetto né tenerezza.
Evoca solo statistiche, divieti e naufragi.
Come ha fatto la specie umana ad arrivare a questo punto, costruendo passerelle per i granchi e filo spinato per gli umani?
Come fa il movimento di un animale a diventare uno spettacolo ecologico, mentre quello di un essere umano è percepito come un reato amministrativo?
I granchi rossi tornano al mare perché da lì provengono.
Gli africani lo attraversano perché vedono rinascere una promessa di luce.
Alcuni beneficiano della “protezione della specie”, ad altri viene negato il diritto fondamentale di esistere altrove.
Sull’Isola di Natale, le telecamere vengono accese per filmare la marea rossa.
Sulle coste europee, vengono spente per non filmare la marea umana. Stesso movimento, stesso colore – il sangue della vita in movimento – ma non lo stesso sguardo.
Il granchio non ha passaporto né confini, eppure è libero.
Gli umani, d’altra parte, portano tutta la geografia sulle spalle, e questa geografia li condanna.
Questa è la grande ironia della nostra modernità:
celebriamo la biodiversità, ma temiamo la diversità umana.
Finanziamo la conservazione delle specie, mentre lasciamo morire chi fugge dall’estinzione economica e morale.
Proteggiamo la migrazione quando è naturale,
e la criminalizziamo non appena diventa umana. I granchi rossi migrano per perpetuare la vita.
Gli umani migrano per evitare di morire.
Ma il diritto alla vita ora sembra riservato al regno animale.
Forse dobbiamo invertire questa prospettiva.
E se questi granchi, nella loro silenziosa processione rossa, ci osservassero?
E se, tra le onde che si infrangono, sussurrassero:
“Come puoi costruire ponti per noi,
e rifiutare una semplice riva ai tuoi simili?”
Zakia Laaroussi
