Questa lettura non è una ricerca di colori o di tecniche di pennello, ma un tentativo di ascoltare ciò che gli occhi hanno da dire quando le forme tacciono. L’arte, in sostanza, non è ciò che vediamo, ma ciò che ci viene rivelato mentre vediamo. I dipinti di Said o Attar non ci chiedono di guardarli, ma piuttosto di lasciare che siano loro a guardarci, ad essere il loro specchio come sono i nostri specchi. Nel suo mondo visivo, l’occhio non è il confine del volto, ma il centro dell’esistenza, un punto in cui la visione si interseca con il sogno, il colore con il significato e il sé con il mondo.
Questa lettura non ha la pretesa di spiegare il mistero, ma piuttosto accompagna questo mistero nel suo viaggio tra mito e misticismo, tra l’occhio di Horus, che custodisce il tempo, e l’occhio del mistico, che si immerge nella luce. È un tentativo di catturare ciò che sfugge al linguaggio, perché ciò che si vede non si dice, e ciò che si dice si può vedere solo con un altro occhio, l’occhio che abita il segreto, che parla in un linguaggio che si sente solo quando la luce si è placata.
L’occhio non è un organo del corpo, ma piuttosto un’entità che immagazzina il primo ricordo di meraviglia. Da quando l’uomo ha visto il riflesso del suo volto sulla superficie dell’acqua, l’occhio non è più solo uno strumento della visione, ma una metafora dell’esistenza stessa, una finestra attraverso la quale l’anima proietta le sue ombre.
Nei templi dei faraoni, l’Occhio di Horus dormiva sopra la fronte del tempo, chiudendosi a metà come se sapesse ciò che non veniva detto. È quello che è stato risvegliato e restaurato, come la memoria della creazione che passa attraverso la ferita prima dell’intuizione. L’antico Egitto era solito appenderlo al petto come scudo contro la cecità esistenziale.

Dall’Egitto ai greci, il gioco non è cambiato molto. Platone credeva che la visione fosse un dialogo tra due luci: la luce che esce dall’occhio e la luce che proviene dal mondo. Per loro la visione non è un ricevere, ma una conquista morbida delle cose. Negli angoli nascosti della mitologia c’è sempre stato un altro occhio: l’occhio che uccide con l’occhio, lo sguardo che non vede ma penetra, che non vede ma sconvolge l’equilibrio. Ciò che è simile al discorso politico del nostro tempo: un occhio aperto all’invidia, chiuso alla verità.
Quando la visione entrò nel regno del misticismo, la sua natura cambiò. L’occhio non guarda più verso l’esterno, ma verso l’interno; si è spostato dall’occhio della vista all’occhio dell’intuizione. Ibn ‘Arabi dice: “Non ho visto altro che Allah prima, dopo e con Lui”. Qui l’occhio diventa un mezzo tra l’invisibile e la vista, uno specchio in cui si manifesta il sé superiore. È l'”occhio che vede senza guardare”, che vede il significato prima dell’immagine.
Per quanto riguarda Jalal al-Din al-Rumi, egli credeva che gli occhi fossero stati creati per piangere al fine di lavare via l’intuizione, perché le lacrime sono la via della visione, e la luce non entra nel cuore finché non viene lavata via dalle lacrime.

Nel XX secolo, quando il mondo è stato distrutto da solo, gli occhi sono stati strappati nei dipinti di Picasso. A Guernica, gli occhi non vedono ma urlano. Si moltiplicano come buchi nel muro della coscienza umana. L’occhio qui è una ferita da vedere, un buco che espone e una lente che cattura il dolore nudo. Picasso non dipinge per il bene della vista, ma piuttosto smonta l’atto del vedere. André Breton diceva: “Picasso non guarda con un occhio, ma con tutto l’occhio del tempo”.
Nei dipinti dell’artista marocchino Said Ouattar, l’occhio assume la forma di una stella che brilla in una notte di plastica. Non una simulazione visiva, ma un colorato respiro mistico. A volte è l’occhio del guardiano che osserva la devastazione e sorride in silenzio, e a volte è l’occhio della femmina cosmica che genera luce dal grembo delle tenebre. Il suo colore cambia così come gli stati del conoscitore: dorato quando si avvicina all’assoluto, blu quando si lava nell’invisibile e nero quando tocca il confine tra l’esistenza e il nulla.
Per Ouattar l’occhio non è né un dettaglio estetico né un elemento decorativo, ma piuttosto un essere indipendente che vive nello spazio del dipinto, così come l’anima vive nel corpo. I suoi occhi stanno quasi respirando, meditando, apprensivi, tristi e illuminanti. Ogni dipinto sembra un momento di lungo silenzio in cui la vista parla il linguaggio dell’invisibile. La presenza dell’occhio nelle sue opere è uno stato psicologico, non un simbolo, perché esercita una nuova funzione: essere il ponte tra ciò che si vede e ciò che si pensa.
In alcune delle sue opere, l’occhio si ripete fino a diventare una galassia di sguardi, cerchi che si riproducono in uno spazio brulicante di colori densi, come se cercasse di vedere il mondo da tutte le angolazioni contemporaneamente. È il desiderio di possedere la verità attraverso la molteplicità degli occhi, come se il caos fosse il suo unico mezzo per l’ordine interno.
In altri dipinti, l’occhio assume la forma di un lungo raggio, immobile come l’acqua ma increspato dall’interno con qualcosa che assomiglia a una preghiera. Qui lo sguardo si trasforma in preghiera silenziosa, in una sorta di immersione visiva che va oltre la scena e oltre.
A volte dipinge l’occhio nel mezzo di una violenta tempesta di colori, colori rivali come se fossero voci che lottano per il diritto di vedere. L’occhio qui non osserva, ma osserva, diventa l’oggetto della visione dopo che ne è stato l’agente, come se l’artista volesse dire che chiunque vede è soggetto a vedere, e che la visione è in sostanza un rapporto reciproco tra il vedente e il vedente.
Altre volte, si accontenta di un occhio, enorme, che riempie lo spazio del dipinto, fissando il vuoto o la scena stessa, e il quadro diventa uno specchio che riflette il nostro sguardo su di noi. Quell’occhio contiene decine di piccoli occhi al suo interno, come se l’intera esistenza fosse un riflesso nella sua pupilla.
Il colore dell’occhio in Ouattar non è soggetto alle regole della prospettiva o alla logica della luce, ma all’emozione. L’oro ai suoi occhi non è il colore dei metalli, ma il colore della rivelazione, il blu non è il cielo ma l’assenza, e il nero non è l’oscurità ma la combustione interna. Ogni colore si aggiunge allo stato psicologico dell’occhio, e ogni cambiamento di colore è un cambiamento nel grado di coscienza. Pertanto, è difficile per l’osservatore determinare la posizione dell’occhio: lo sta guardando o è lui a guardarlo? Si muove all’interno del dipinto come un’onda, cambiando a seconda dell’angolo di osservazione, come se fosse un oggetto che pulsa all’interno della superficie.
L’occhio nel mondo di Ouattar è anche uno specchio per le donne. A volte è un occhio femminile misterioso, con tenerezza e minaccia, con tenerezza universale e violenza soffocata. A volte si moltiplica in un corpo senza volto, una femminilità assoluta che circonda il mondo con il suo sguardo. Forse l’artista ha voluto riappropriarsi dell’idea della grande madre che partorisce la luce dalle tenebre, in modo che l’occhio diventi il grembo della luce, non uno strumento per catturarla. In questa trasformazione, lo sguardo diventa un atto di nascita, e la visione diventa un evento cosmico.

Ciò che stupisce di questi dipinti è che l’occhio non si ferma in un unico senso. È allo stesso tempo l’occhio della guardia, l’occhio del bambino, l’occhio del conoscitore e l’occhio dell’assente. Si muove tra i ruoli come l’anima si muove tra gli stati di rivelazione e di copertura. Questa molteplicità gli conferisce una profondità mistica senza perdere la sua energia plastica, così i suoi dipinti sembrano scrivere una poesia esistente con elementi visivi, una poesia che non si legge in lettere ma nella luce.
Per Ouattar l’occhio diventa la chiave di lettura dell’intero progetto: per lui l’arte non è una simulazione del mondo, ma un tentativo di vederlo di nuovo, di reinventare lo sguardo stesso. Attraverso questo espediente visivo, il dipinto diventa uno spazio per chiedersi: chi vede chi? Siamo noi che guardiamo il quadro o il quadro che ci vede? La vista è possesso o esposizione? Queste domande, che Ouattar lascia appese nelle pupille, come se fossero l’ultimo invito a meditare prima che la luce si spenga.
Dall’Occhio di Horus all’Occhio di Picasso fino all’Occhio del Profumiere, la vista non ha perso il suo fascino, ma ha assunto nuove forme di inganno visivo e spirituale.
Gli occhi non sono attratti a vedere, ma a ricordarci che ogni visione è incompleta se non è contaminata da qualcosa del sogno.
Alla fine, per l’artista Said Ouattar, l’occhio parla il linguaggio dell’assenza, che non è ciò che vediamo in esso, ma ciò che vediamo attraverso di esso.
Zakia Laroussi
