Boualem, figlio di parole ribelli, è emerso da una lunga notte, una notte segnata dalla sua lotta contro l’isolamento, la censura e la paura. Un anno di muri freddi e occhi silenziosi, un anno di introspezione. E ora torna alla luce, con la grazia, dopo che il mondo, attraverso la mediazione del presidente tedesco, ha ricordato che la libertà non è un privilegio ma un diritto, e che la parola libera non può essere estinta, per quanto i regimi cerchino di reprimerla.
A partire da Socrate, la verità è stata detta con l’amarezza del veleno, non con la dolcezza della vittoria. Chiunque l’abbia detta si è trovato di fronte alle masse. Socrate ha bevuto il suo calice in nome della virtù, Camus ha scritto la sua assurdità in nome dell’umanità e Foucault ha scavato nel cuore del potere fino a far diventare il suo stesso corpo un altro testo di resistenza. Boualem, questo incrollabile maghrebino, non ha fatto eccezione. Piuttosto, è stato un’estensione di quella stirpe che ha scelto di essere testimone, non silenzioso, e di pagare il prezzo della consapevolezza anziché quello della sottomissione.
Dicevano che insultava la nazione, quando tutto ciò che faceva era affrontare una storia frammentata con le parole. Una nazione è insultata quando le viene detta la verità? O è insultata quando la sua voce viene soffocata e i suoi figli ridotti al silenzio?
Chi teme la parola teme lo specchio. E Boualem mostrò lo specchio a tutti, così lo ruppero per non vedere i propri volti.
L’intervento del presidente tedesco non è stato un atto di cortesia diplomatica, ma un atto morale che restituisce alla politica la sua dimensione umana. Ci ha ricordato che la giustizia non conosce confini e che il silenzio internazionale non è neutralità, ma complicità. La Germania lo ha detto con la sua caratteristica freddezza razionale: liberatelo, perché la verità non può essere imprigionata.
La Francia, da parte sua, ha applaudito in nome della libertà, come se stesse esalando l’ultimo respiro dell’aria di giustizia che aveva quasi soffocato le sue capitali.
Ma la questione non è il perdono di uno scrittore; è una prova di coscienza collettiva.
Perché la domanda che emerge tra le righe è più profonda di qualsiasi titolo di giornale:
la libertà è un dono concesso? O un’essenza che nasce dentro una persona?
Boualem ha risposto con il suo silenzio, con il suo corpo, con il suo dolore che è diventato un testo aperto alla lettura delle generazioni future.
Oggi Boualem è stato liberato dalla prigione fisica, ma noi restiamo in una prigione più grande: la prigione della paura di pensare, di interrogarsi, di prendere posizione. Scriviamo a mezza voce, timorosi di vedere tutta la verità.
Ed è questa la punizione più grande: vivere in prigioni immaginarie credendoci liberi.
Complimenti alla Francia, che ha saputo proteggere la sua libera voce, e congratulazioni alle cause giuste che non muoiono mai, nemmeno quando sono assediate.
In tutto questo, il mito si ripete: Prometeo, che rubò il fuoco per donarlo all’umanità, fu incatenato a una roccia. Boualem è un Prometeo maghrebino; rubò la scintilla del pensiero da sotto le ceneri della paura e ne pagò il prezzo. Ma non fu sconfitto. Perché, come diceva Camus, “Nel profondo di ogni inverno, c’è un’estate invincibile”.
Ora che è libero, la domanda aleggia nell’aria mediterranea: chi di noi è veramente libero?
Boualem è fuori di prigione, mentre noi restiamo imprigionati dalla paura della parola, di prendere posizione, della verità.
Congratulazioni alle giuste cause che non muoiono mai, e congratulazioni alla Francia per aver capito che la libertà non è uno slogan, ma una realtà. Forse è giunto il momento che tutti capiscano che la verità non è un crimine, che coloro che vengono esiliati per essa sono immortali e che coloro che dicono la verità non vengono ostracizzati, ma messi alla prova. E che in un’epoca di falsità, l’ostracismo è l’onore del pensiero.
Zakia Laaroussi
