Era come se il deserto avesse inviato uno dei suoi figli a ricordare al mondo le sue origini. Il cammello emerse dal grembo delle sabbie sui fronti innevati, percorrendo le strade dell’Ucraina come se attraversasse due mondi: uno consumato dalle macchine e un altro che conservava ancora i resti del suo spirito. Che presagio di cambiamento per il deserto, mentre la sua presenza veniva ripristinata attraverso una scena surreale: un cammello che trascinava i piedi tra i carri armati, una testimonianza della follia dell’umanità, sfinita dai suoi strumenti, che poi ricorse agli animali per completare la sua follia.
Che i cammelli partecipino alle guerre del XXI secolo non è una questione da poco, ma piuttosto un’osservazione satirica scritta dalla mano ironica della storia. In un’epoca di droni e algoritmi letali, antiche carovane si trovano sull’orlo della battaglia, come se il tempo stesso stesse tornando indietro, tornando dal domani al suo passato, a dimostrazione che il progresso è una linea circolare, non retta, e che la civiltà, una volta raggiunto il suo apice, torna inevitabilmente alla ricerca delle proprie radici.
Il cammello nella neve non è un incidente militare, ma filosofico, uno specchio che riflette il vecchio volto dell’umanità, macchiato dal fango della modernità. In ogni guerra, l’umanità dimentica se stessa, e in ogni atto di oblio, la natura glielo ricorda. Quando cammelli e asini vengono utilizzati per trasportare munizioni, vediamo non solo una mancanza di equipaggiamento, ma anche una mancanza di consapevolezza. La tecnologia, al suo apice, è incapace di trasmettere il significato della sopravvivenza, mentre il cammello, con il suo silenzioso fardello e la sua tenace pazienza, ci ricorda la saggezza della semplicità, una saggezza che nessuna macchina può sconfiggere. Ci dice, nel suo silenzio: a cosa serve il ferro se non porta compassione? A cosa serve l’intelligenza artificiale se non impara l’umiltà da una bestia che conosce la strada senza bussola?
Nella nostra cultura, il cammello è stato l’incarnazione della pazienza, il ricordo della carovana, la voce del deserto nel suo silenzio e l’immagine stessa della bellezza nella sua asprezza. I poeti lo vedevano come uno specchio che rifletteva la resilienza dell’umanità di fronte al nulla. Oggi, il cammello torna su un campo di battaglia europeo per ricordare al mondo un significato che pensava di aver trasceso: che la sopravvivenza non è forgiata dalla tecnologia ma dalla volontà, e che la bellezza, come la fede, nasce all’aria aperta, non nelle città fortificate.
Nella scena del cammello intrappolato tra i ghiacci dell’Ucraina e i fuochi della guerra, il volto della storia emerge con i suoi tratti antichi. Ecco una civiltà che costruisce eserciti di intelligenza artificiale, ma non riesce a procurarsi carburante per i propri carri armati, ricorrendo agli animali come ultima risorsa per la sopravvivenza. È come se l’umanità, divenuta arrogante, fosse stata spogliata dei suoi strumenti e fosse tornata all’inizio della creazione, sentendo echeggiare nel vuoto l’antico richiamo: “Non hanno forse viaggiato attraverso la terra e visto quale fu la fine di coloro che si lasciarono ingannare dalla loro forza?”. Questa scena serve a ricordare che l’arroganza tecnologica è solo un nuovo volto dell’ignoranza primordiale.
Il deserto, osservando questo paradosso da lontano, sorride con la saggezza del saggio. Ha reclamato il suo figlio perduto, non sulle sue sabbie, ma sulle nevi altrui, per dichiarare: Lascio ancora il mio segno su questa terra. Perché in ogni cammello che calpesta il ghiaccio si cela un’ombra di sabbia arabica, e in ogni fardello il suo corpo porta il respiro dei primi beduini che plasmarono l’arte dalla sete e la filosofia dall’attesa. Quanto è simile oggi a ieri, quando il cammello trasportava carovane sul sentiero delle guerre sante, e oggi trasporta munizioni in una guerra che non conosce né santità né causa, solo la follia dell’umanità contro la propria umanità.
In questa scena, la storia si interseca con il mito, la politica con la filosofia, l’animale con l’uomo in un’assurda danza per la sopravvivenza. Eppure, al centro di questa assurdità, risplende la bellezza. Una bellezza inconquistabile, una bellezza che sgorga da sotto le macerie come un ruscello nascosto, una bellezza che dichiara all’Età del Ferro: la terra è ancora capace di generare meraviglia. Quindi, evviva il nostro deserto per la sua bellezza, perché ha trovato nella follia del mondo una giustificazione per la sua saggezza, e nel ritorno del cammello alla neve un ripristino del significato della coscienza.
Forse il cammello fu l’ultimo testimone che la guerra non è l’opposto della bellezza, ma la sua immagine capovolta, e che quando una persona perde la poesia nella propria vita, la sostituisce con il suono metallico dei proiettili. Ma il deserto sa che il tempo avanza, e che chi cammina sulla terra con occhi di contemplazione, non di oppressione, vede un segno in ogni passo. E così le carovane riprendono il viaggio, non verso i porti ma verso la memoria, portando sulle spalle le ultime vestigia dell’umanità del mondo.
Zakia Laaroussi:
